Tiro mancino

di Andrea Saviano

È mattina, entro nello spogliatoio, mi cambio poi passo all'interno della palestra. Come entro vengo accolto da un fragoroso applauso e da dei fischi d'acclamazione. In effetti, oggi nella vecchia e sudicia scuola di boxe di McClane si respira, oltre al solito odore di sano sudore, anche quello della vittoria.

Saluto un sacco di gente, ma non appena incrocio lo sguardo del mio allenatore, mi dirigo verso di lui, trascurando i vari colleghi che intendono intrattenersi nelle solite quattro futili chiacchiere da bar dello sport.

« Certo che oggi ce n'è di gente qui dentro. Persino troppa per essere soltanto lunedì mattina! » Gli dico.

« Si vede che ce n'è motivo. Inoltre, da quando per questa maledetta crisi le fabbriche chiudono una dopo l'altra, la città è piena di fannulloni che vengono a perdere tempo in questa palestra. » Mi risponde lui, poi aggiunge: « Piuttosto, come ti senti campione? »

« Bene, » gli dico. « Mi sento in grandissima forma, come sempre. »

« Allora, ormai ci siamo. Questo sabato arriverà il gran giorno. »

« Già, se non me lo dicevi, non me ne sarei ricordato, » gli confermo io, con un tono di voce che fa sembrare la cosa una nullità.

Lui ride, quindi mi chiede: « Hai visto i cartelloni, li hanno appesi ieri notte per tutta la città. »

« No, non li ho visti. Ho camminato fin qui sempre guardando per terra. Sai per evitare di pestare qualche escremento di cane. Lo sai che nei sobborghi non passano mai a ramazzare i marciapiedi. »

A questa battuta ride tutta la palestra.

Il mio allenatore tuttavia pare diventare tutto ad un tratto preoccupato.

« Abel, parlo seriamente. Li hai visti? Il tuo nome è in cima alla lista, scritto più in grande di tutti gli altri. Il carattere è il triplo del solito e il colore utilizzato è il rosso. Il tuo sarà l'incontro clou della serata. Sei sempre certo di voler aprire la serata, invece di chiuderla? Non si è mai aperta una serata di pugilato servendo come antipasto la portata principale. »

Dopo queste parole lo fisso negli occhi, gli prendendo delicatamente la nuca rasata con il palmo della mano e gli ribadisco: « Coach, lo sai, Cohen è un cognome che in un certo senso significa rabbino. Sai quanto io tenga alla mia religione. Il mio incontro deve necessariamente aprire la serata, perché deve concludersi prima che il sole sia tramontato, tutto questo per rispettare la sacralità del šabatth. »

Lui mi sostiene: « A volte bisogna saper accettare di fare qualche eccezione alla regola. »

Vorrei rispondergli ma qualcuno dietro le mie spalle ad alta voce afferma: « Allora puoi farlo posticipare di un'ora, tanto lo butti giù alla prima ripresa! »

Sorrido per quell'attestato di stima, anche se non so da chi provenga.

Un altro chiede ad alta voce: « Abel, a quanto danno il tuo avversario? »

In coro gli rispondono al posto mio: « A quindici! »

Cosa aggiungere a ciò? Per essere un evento sportivo con solo due protagonisti il fatto che diano il mio avversario solo a quindici è molto lusinghiero nei miei confronti, soprattutto perché io sono lo sfidante mentre lui è il detentore del titolo nazionale dei welter, nonché guanto d'oro della federazione e, non bastasse ciò, medaglia d'oro alle ultime olimpiadi.

In fin dei conti io sono solo uno sconosciuto passato professionista due anni fa. Sono il sogno americano di risveglio dopo questa crisi cominciata un venerdì definito ormai da tutti: nero.

Allora perché sono valutato in quel modo?

Perché sono Abel Cohen, lo sfidante al titolo nazionale dei welter, altezza un metro e settant'otto per sessantasette chili e qualche etto. Due metri e dodici d'apertura di braccia e un metro e quindici di torace e queste ultime, lo ammetto, sembrano le misure di un peso massimo e, in effetti, sono eccessive per la mia statura. A mio vantaggio, rispetto ad un peso massimo, ho un punto vita di soli sessantadue centimetri, un vero e proprio vitino da vespa, cosa molto insolita per un maschio, ma mi alleggerisce la struttura di una quindicina di chili.

Ora, se per stazza rendo parecchi chili ad un peso massimo in compenso la rapidità dei miei pugni, in particolare il diretto sinistro, è proverbiale. Sono talmente veloce che nessun fotografo, almeno di quelli con una macchina fotografica ordinaria, è finora riuscito ad immortalare in un fotogramma il fermo immagine del mio tiro mancino al fulmicotone. Questo la dice lunga sul soprannome che i giornali m'hanno appioppato: Flash.

« Coach, vado a cambiarmi e comincio l'allenamento, perché non credo che riuscirò a vincere l'incontro solo a parole. » « Bravo. Fai bene. Ci vediamo più tardi in sala pesi, » mi risponde lui.

Entro nello spogliatoio tra una selva di braccia che si levano a riempirmi di pacche sulle spalle. I ragazzi mi adorano, forse perché rappresento la speranza che alberga in ognuno di loro. Nessuno prende pugni in faccia per passione, ma perché sogna un giorno di non essere più quella nullità che è, cosa ben diversa dall'essere qualcuno, perché per non essere una nullità basta aver calcato un ring di quelli che contano per un incontro per il titolo, poco importa che l'altro alla fine ti abbia massacrato.

Per me però è stato qualcosa di diverso.

La mia carriera è stata improvvisa, casuale e fulminea. Ho esordito come dilettante solo un paio d'anni fa, eppure mi ritrovo già professionista affermato con un ruolino di marcia di tutto rispetto: quattordici incontri disputati e – udite, udite – tutti vinti per KO alla prima ripresa. Come aveva scritto a titoli cubitali un giornale: il figlio del rabbino è impressionante!

L'equazione che ha come risultato le mie vittorie è tanto semplice, quanto efficace e si basa sulla definizione stessa di energia cinetica, cioè massa per velocità al quadrato. Ora, poiché nemmeno il più veloce dei diaframmi di una macchina fotografica è in grado d'immortalare il mio diretto sinistro, è facile intuire quale potenza fossero in grado di sprigionare i miei pugni e, in particolare, quel mio tiro mancino.

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